A causa della confusionaria normativa italiana in materia di cannabis light, chi la vende non è punibile. È quanto, in estrema sintesi, ha affermato al procura di Taranto che ha chiesto e ottenuto l’archiviazione per le 56 persone coinvolte nell’inchiesta “Affari in fumo”, condotta dalla Guardia di finanza, che nel 2018 aveva portato al sequestro di oltre 1 tonnellata di infiorescenze di cannabis light e migliaia di prodotti venduti in Puglia, Campania, Calabria, Sicilia, Lazio e Lombardia.
Sotto la lente erano finiti anche 120 litri di bevande e liquidi contenenti un basso contenuto di Thc, 2.600 prodotti alimentari, 4.500 articoli e strumenti utilizzati per il confezionamento e l’ingestione, l’inalazione o la combustione dell’infiorescenza di canapa e 4mila locandine che pubblicizzavano i prodotti.
Un nodo saliente su cui anche le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, come ben sappiamo, avevano dato ragione all’accusa sostennedo che la commercializzazione di cannabis sativa e, in particolare di foglie, inflorescenze, olio, resina, ottenuti dalla coltivazione di quella particolare varietà di canapa “non rientra nell’ambito di applicazione della legge n. 242 del 2016, che qualifica come lecita unicamente l’attività di coltivazione di canapa delle varietà iscritte nel Catalogo comune delle specie di piante agricole” e che “elenca tassativamente i derivati dalla predetta coltivazione che possono essere commercializzati”. Non solo. Secondo i giudici della Cassazione, quindi, erano da considerarsi reati, come violazione del testo unico sugli stupefacenti “la commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, dei prodotti derivati dalla coltivazione della cannabis sativa, salvo che tali prodotti siano in concreto privi di efficacia drogante”.